Pioveva
a dirotto la sera del 15 ottobre 1877 quando Giuseppe Garibaldi giunse a Cuneo.
Aveva 70 anni ed era nel pieno delle sue forze.
Partito
da Caprera dove si era ritirato sette anni prima, dopo aver invano tentato di
aiutare i francesi contro la Prussia, aveva fatto un lungo viaggio: prima in
nave fino a Napoli e poi risalendo l’Italia ormai quasi tutta unificata con
Roma Capitale. Quanti ricordi: Marsala, Napoli, Talamone, Quarto di Genova e
poi fino a Cuneo. A dire il vero, Garibaldi era già stato a Cuneo.
Infatti
in via Savigliano sull’angolo dell’edificio già monastero di S.Chiara poi
divenuto il vecchio Ginnasio/Liceo Silvio Pellico, c’è una lapide collocata nel
1884 dal sodalizio cuneese dei superstiti garibaldini “auspice il Municipio”
che dice: “Il 7 Aprile 1859, Giuseppe Garibaldi, passava in rassegna fra queste
mura il primo corpo dei Cacciatori delle Alpi che lui Duce, a Varese e a Como
con braccio di soldati, con fede di cittadini, per la patria combattendo alla
gloria dei mille preludevano”.
Nel
primo Corpo dei Cacciatori delle Alpi vi erano anche i fratelli Paolo e
Giuseppe Ramorino.
I
fratelli Ramorino erano morti il 1° ottobre 1860 nella battaglia di Castello di
Morrone e Giuseppe Garibaldi era venuto a Cuneo a trovarne la madre, donna
Angela Ramorino.
Dalla
stazione vecchia, vicino al Torrente Gesso, una carrozza portò il Generale
all’Albergo della Barra di Ferro. E’ stato abbandonato da tempo ma vi è chi si
ricorda di aver visto nelle scale dello storico maniero la classica targa
“GARIBALDI HA DORMITO QUI”.
Era giunto a destinazione ma ora era tormentato da un
pensiero che aveva allontanato durante il piacevole viaggio: che cosa
poteva dire ad una madre che aveva perso gli unici suoi figli, colui che era
stato la causa della loro morte?
Perché
era innegabile che era stato lui con tutto il suo tramare con Mazzini, con Pisacane
e tanti altri intorno all’idea dell’indipendenza dell’Italia, che aveva
suscitato negli animi di tanti giovani l’idea che bisognava combattere contro
l’Austria ma anche contro altri piccoli e grandi stati sparsi per la penisola,
come il Regno delle Due Sicilie, ed anche contro il Sovrano di Roma – il Papa,
a
tutti i costi, per la libertà, per l’Italia!
Ma
quale libertà, pensava Garibaldi, quella di passare dagli ordini del Re
Franceschiello a quelli di Vittorio di Savoia che con i soldati piemontesi
stava sparando sui ribelli calabresi?
Tanti
morti, tanto dolore: ne era valsa la pena?
Con
questi dubbi nella testa, il giorno dopo, Garibaldi salì la ripida scala del n.
27 di Via Maestra ed entrò in una stanza oscurata e silenziosa, in casa di
donna Angela Ascheri ved. Ramorino.
Garibaldi, il duce, abituato ai discorsi in pubblico ed in situazioni di
tensione, non seppe esimersi dall’usare toni retorici e le disse: “Voi madre di
Paolo e di Giuseppe Ramorino, Voi meritate tutta la gratitudine d’Italia e del
suo governo. Nel martirologio italiano la famiglia dei Ramorino deve contare
accanto a quella dei Cairoli, dei Bronzetti e Debenedetti”.
Silenzio!
Angela Ramorino era una donna sola, come è sola ed
abbandonata nella sua attuale tomba nel cimitero di Cuneo. Si alzò in piedi e
porse la mano al Generale. “Come sono morti...?” gli chiese.
Garibaldi
si sedette e subito vide la scena, una dei tanti campi di battaglia in cui il
rosso delle camicie dei suoi uomini si confondeva con il rosso del loro sangue
e raccontò:
“Il 6
settembre 1860 il Re di Napoli Francesco II, visto l’approssimarsi dell’armata
garibaldina, lasciava Napoli per Gaeta lanciando un accorato appello ai suoi
soldati perché arretrassero oltre il Volturno per un’estrema difesa del Reame.
I
soldati napoletani, pur consci che la partita era perduta, si riunirono
spontaneamente a migliaia per l’ultima difesa della Patria morente.
Fu a
Castel Morrone che si ebbe l’impatto tra le truppe borboniche forti di 2000 uomini
con i 295 bersaglieri al comando del Maggiore Pilade Bronzetti.
Chiara
risultava la sproporzione delle forze, ma Bronzetti intuì che a Castel Morrone
poteva decidersi la sorte di tutta la battaglia del Volturno e non volle cedere
di un sol passo.
I
borbonici lentamente ascesero il monte in modo da precludere ai garibaldini
ogni ritirata ed alle 11 iniziò il combattimento vero e proprio che si
protrasse per quasi 5 ore fino a quando i borbonici riuscirono a sfondare le
ultime difese dei garibaldini che, rimasti senza munizioni, si difendevano
scagliando sassi sugli assalitori.
Alla
fine migliaia di uomini combattevano all’arma bianca in uno spazio che non
bastava nemmeno a contenerli pacificamente.
II
combattimento assunse momenti altamente epici e drammatici con quei giovani
italiani che pur guardandosi negli occhi spaventati si uccidevano in un corpo a
corpo disperato. Lo scontro si concluse verso le 4 del pomeriggio con la morte
del comandante dei garibaldini Maggiore Pilade Bronzetti, 200 prigionieri, un
grandissimo numero di feriti in un lago di sangue ed una ventina di morti di
cui 16 garibaldini.
Fra di
loro vi erano pure Paolo e Giuseppe Ramorino. Avevano sempre cercato di stare
insieme, da fratelli, e morirono insieme.”[1]
“Mi
ricordo”, concluse Garibaldi “che anch’io, nel mio ordine del giorno scrissi: A
Castel Morrone Bronzetti… alla testa di un pugno di cacciatori, ripeteva uno di
quei fatti, che la storia porrà certamente accanto a’ combattimenti di Leonida…
Ed ove giacciono le ossa di tanti prodi e dell’illustre Duce Bronzetti ITALIA
LE RICORDI! Ora sono qui ad onorare la madre di due eroi”.
La
madre Angela Ramorino continuava a stare in silenzio.
Poi
disse: “Non voglio alcun monumento, né onorificenze, né ricompense. Vada via,
assassino!”.
Il
Generale sapeva che non tutti erano d’accordo sulle sue gesta di guerriero,
conquistatore d’Italia, tanto più che chi ne aveva tratto vantaggio e molto,
erano stati altri. I piemontesi prima di tutto, ma anche i tanti opportunisti
che erano prontamente saltati sul carro del vincitore; delusi ed insoddisfatti
erano rimasti i giovani idealisti, speranzosi in una nuova Italia, libera e più
giusta.
Però
quel silenzio pieno di dolore e di rimprovero e “assassino”, lo colpirono come
un pugno in pieno petto.
Salutò,
biascicando le solite “condoglianze... non sono caduti invano... li
ricorderemo” ed uscì fuori all’aperto. Angela Ramorino rimase in solitudine e
povertà fino a quando, l’anno dopo, finì di piangere.
Fu
l’aria di Cuneo, generosa e balsamica, ad accogliere il duce e lo accompagnò,
solo, in mezzo alla gente che pacificamente passeggiava sotto i bassi portici.
I ricchi e gli ufficiali sotto i portici di destra, il popolo ed i soldati
dalla parte sinistra.
Non
era la prima volta che sentiva tutto il peso delle sue responsabilità in quelle
che si potevano chiamare rivoluzioni, conquiste, difese, guerre, ma che
finivano tutte in carneficine, sofferenze e morti di innocenti, per cosa poi?
Ma
per la libertà, la giustizia, la patria: lo diceva Mazzini. Anzi per questi
nobilissimi fini si può persino eccedere nei mezzi della violenza.
E
quando i fini non si raggiungono? Quando i mezzi illeciti sono sproporzionati
ai pur giustificati fini?
Erano
pensieri troppo difficili per lui, uomo della Pampa: “Io - pensava più
tardi, mentre si rigirava nel letto – sono fatto così, sono un uomo
d’azione e di comando, ed alla fin fine ho pur ricevuto lodi ed applausi, ed
allora cosa sono qualche decine di morti dinanzi alle migliaia, ai milioni di
vivi, che ora si godono la libertà?”.
Si
fermò: “ma vivi come? Veramente liberi o non piuttosto sudditi? Felici o non
piuttosto indifferenti? Era questa l’Italia che avevano sognato i fratelli
Ramorino?”.
Anche una buona idea può illudere, uccidere e fallire.
Garibaldi
non sapeva che un secolo dopo, la grande idea comunista del suo amico Marx
avrebbe grandemente illuso, grandemente ucciso e sarebbe fallito il tentativo
di realizzarla. Ma una buona idea non muore.
Ma
lui che veniva da Caprera cioè dal simbolo di un fallimento, in quel momento
capì l’amarezza della signora Ramorino ed il rifiuto dell’orgoglio che egli le
aveva offerto. Del resto si ricordò che dieci anni prima aveva scritto ad
Adelaide Cairoli (madre di 3 fratelli morti garibaldini): “io ho la coscienza
di non aver fatto male, nonostante non rifarei oggi la via dell’Italia
Meridionale temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice
della disprezzevole genia che disgraziatamente regge l’Italia e che semina
l’odio e lo squallore dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire
italiano sognato dai buoni di tutte le generazioni, e miracolosamente
iniziato.” [2]
Ma
“assassino” no! “Io ho sempre desiderato il bene di tutti, anche di Anita,
anche di Anita... ma l’ho fatta soffrire, povera donna! E’ vero me la
trascinavo in battaglia anche incinta, ma l’ha uccisa la guerra, non io, non
io!”.
Ed
allora capì che assassino non è il soldato che pianta nella pancia del fratello
la lunga baionetta innestata sul fucile, assassino è il comandante che dà
l’ordine.
Solo, nel suo letto cuneese, Giuseppe Garibaldi pianse. E
non sapeva della triste sorte delle guerre moderne combattute non per necessità
ma per l’affermazione di un principio (come le Crociate): dall’olocausto della
Divisione Cuneense in Russia, al Vietnam, a Sarajevo, all’Irak e poi e poi…
Tetto
de’ Chivalieri, agosto 2010
leggi l'introduzione: introduzione-ai-racconti-fattuali-risorgimentali
[1] In verità i due fratelli
Ramorino non sono morti insieme e così come l’ho descritto io. Come ho appreso
dal prof. Giovanni Cerutti (emulo di famosi cronisti della Cuneo del passato),
Giuseppe Ramorino, arruolatosi volontario nel 1859 fra i Cacciatori delle Alpi,
partecipò alla spedizione dei Mille, cadendo in combattimento effettivamente
sul Volturno, il 2 ottobre 1860. Il fratello Paolo fu amico di Garibaldi e difese
la Repubblica romana con Luciano Manara e Goffredo Mameli morendo a Villa
Corsini il 3 giugno 1849. Ma la verità storica la raccontano gli storici: gli
artisti inventano.
[2]
Lettera di Giuseppe Garibaldi ad Adelaide Cairoli da Caprera
il 7 settembre 1868 riportato su LA REPUBBLICA.
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