mercoledì 22 giugno 2016

Racconti fattuali risorgimentali: Giuseppe Garibaldi, cuneese



Pioveva a dirotto la sera del 15 ottobre 1877 quando Giuseppe Garibaldi giunse a Cuneo. Aveva 70 anni ed era nel pieno delle sue forze.

Partito da Caprera dove si era ritirato sette anni prima, dopo aver invano tentato di aiutare i francesi contro la Prussia, aveva fatto un lungo viaggio: prima in nave fino a Napoli e poi risalendo l’Italia ormai quasi tutta unificata con Roma Capitale. Quanti ricordi: Marsala, Napoli, Talamone, Quarto di Genova e poi fino a Cuneo. A dire il vero, Garibaldi era già stato a Cuneo.

Infatti in via Savigliano sull’angolo dell’edificio già monastero di S.Chiara poi divenuto il vecchio Ginnasio/Liceo Silvio Pellico, c’è una lapide collocata nel 1884 dal sodalizio cuneese dei superstiti garibaldini “auspice il Municipio” che dice: “Il 7 Aprile 1859, Giuseppe Garibaldi, passava in rassegna fra queste mura il primo corpo dei Cacciatori delle Alpi che lui Duce, a Varese e a Como con braccio di soldati, con fede di cittadini, per la patria combattendo alla gloria dei mille preludevano”.

Nel primo Corpo dei Cacciatori delle Alpi vi erano anche i fratelli  Paolo e Giuseppe Ramorino.

I fratelli Ramorino erano morti il 1° ottobre 1860 nella battaglia di Castello di Morrone e Giuseppe Garibaldi era venuto a Cuneo a trovarne la madre, donna Angela Ramorino.

Dalla stazione vecchia, vicino al Torrente Gesso, una carrozza portò il Generale all’Albergo della Barra di Ferro. E’ stato abbandonato da tempo ma vi è chi si ricorda di aver visto nelle scale dello storico maniero la classica targa “GARIBALDI HA DORMITO QUI”.

Era giunto a destinazione ma ora era tormentato da un pensiero che aveva allontanato durante il piacevole viaggio:  che cosa poteva dire ad una madre che aveva perso gli unici suoi figli, colui che era stato la causa della loro morte?

Perché era innegabile che era stato lui con tutto il suo tramare con Mazzini, con Pisacane e tanti altri intorno all’idea dell’indipendenza dell’Italia, che aveva suscitato negli animi di tanti giovani l’idea che bisognava combattere contro l’Austria ma anche contro altri piccoli e grandi stati sparsi per la penisola, come il Regno delle Due Sicilie, ed anche contro il Sovrano di Roma – il Papa,

a tutti i costi, per la libertà, per l’Italia!

Ma quale libertà, pensava Garibaldi, quella di passare dagli ordini del Re Franceschiello a quelli di Vittorio di Savoia che con i soldati piemontesi stava sparando sui ribelli calabresi?

Tanti morti, tanto dolore: ne era valsa la pena? 

Con questi dubbi nella testa, il giorno dopo, Garibaldi salì la ripida scala del n. 27 di Via Maestra ed entrò in una stanza oscurata e silenziosa, in casa di donna Angela Ascheri ved. Ramorino.

      Garibaldi, il duce, abituato ai discorsi in pubblico ed in situazioni di tensione, non seppe esimersi dall’usare toni retorici e le disse: “Voi madre di Paolo e di Giuseppe Ramorino, Voi meritate tutta la gratitudine d’Italia e del suo governo. Nel martirologio italiano la famiglia dei Ramorino deve contare accanto a quella dei Cairoli, dei Bronzetti e Debenedetti”.

 Silenzio!

Angela Ramorino era una donna sola, come è sola ed abbandonata nella sua attuale tomba nel cimitero di Cuneo. Si alzò in piedi e porse la mano al Generale. “Come sono morti...?” gli chiese.

Garibaldi si sedette e subito vide la scena, una dei tanti campi di battaglia in cui il rosso delle camicie dei suoi uomini si confondeva con il rosso del loro sangue e raccontò:

“Il 6 settembre 1860 il Re di Napoli Francesco II, visto l’approssimarsi dell’armata garibaldina, lasciava Napoli per Gaeta lanciando un accorato appello ai suoi soldati perché arretrassero oltre il Volturno per un’estrema difesa del Reame.

I soldati napoletani, pur consci che la partita era perduta, si riunirono spontaneamente a migliaia per l’ultima difesa della Patria morente.

Fu a Castel Morrone che si ebbe l’impatto tra le truppe borboniche forti di 2000 uomini con i 295 bersaglieri al comando del Maggiore Pilade Bronzetti.

Chiara risultava la sproporzione delle forze, ma Bronzetti intuì che a Castel Morrone poteva decidersi la sorte di tutta la battaglia del Volturno e non volle cedere di un sol passo.

I borbonici lentamente ascesero il monte in modo da precludere ai garibaldini ogni ritirata ed alle 11 iniziò il combattimento vero e proprio che si protrasse per quasi 5 ore fino a quando i borbonici riuscirono a sfondare le ultime difese dei garibaldini che, rimasti senza munizioni, si difendevano scagliando sassi sugli assalitori.

Alla fine migliaia di uomini combattevano all’arma bianca in uno spazio che non bastava nemmeno a contenerli pacificamente.

II combattimento assunse momenti altamente epici e drammatici con quei giovani italiani che pur guardandosi negli occhi spaventati si uccidevano in un corpo a corpo disperato. Lo scontro si concluse verso le 4 del pomeriggio con la morte del comandante dei garibaldini Maggiore Pilade Bronzetti, 200 prigionieri, un grandissimo numero di feriti in un lago di sangue ed una ventina di morti di cui 16 garibaldini.

Fra di loro vi erano pure Paolo e Giuseppe Ramorino. Avevano sempre cercato di stare insieme, da fratelli, e morirono insieme.”[1]

“Mi ricordo”, concluse Garibaldi “che anch’io, nel mio ordine del giorno scrissi: A Castel Morrone Bronzetti… alla testa di un pugno di cacciatori, ripeteva uno di quei fatti, che la storia porrà certamente accanto a’ combattimenti di Leonida… Ed ove giacciono le ossa di tanti prodi e dell’illustre Duce Bronzetti ITALIA LE RICORDI! Ora sono qui ad onorare la madre di due eroi”.

La madre Angela Ramorino continuava a stare in silenzio.

Poi disse: “Non voglio alcun monumento, né onorificenze, né ricompense. Vada via, assassino!”.

Il Generale sapeva che non tutti erano d’accordo sulle sue gesta di guerriero, conquistatore d’Italia, tanto più che chi ne aveva tratto vantaggio e molto, erano stati altri. I piemontesi prima di tutto, ma anche i tanti opportunisti che erano prontamente saltati sul carro del vincitore; delusi ed insoddisfatti erano rimasti i giovani idealisti, speranzosi in una nuova Italia, libera e più giusta.

Però quel silenzio pieno di dolore e di rimprovero e “assassino”, lo colpirono come un pugno in pieno petto.

Salutò, biascicando le solite “condoglianze... non sono caduti invano... li ricorderemo” ed uscì fuori all’aperto. Angela Ramorino rimase in solitudine e povertà fino a quando,  l’anno dopo,  finì di piangere. 

Fu l’aria di Cuneo, generosa e balsamica, ad accogliere il duce e lo accompagnò, solo, in mezzo alla gente che pacificamente passeggiava sotto i bassi portici. I ricchi e gli ufficiali sotto i portici di destra, il popolo ed i soldati dalla parte sinistra.

Non era la prima volta che sentiva tutto il peso delle sue responsabilità in quelle che si potevano chiamare rivoluzioni, conquiste, difese, guerre, ma che finivano tutte in carneficine, sofferenze e morti di innocenti, per cosa poi?

Ma per la libertà, la giustizia, la patria: lo diceva Mazzini. Anzi per questi nobilissimi fini si può persino eccedere nei mezzi della violenza.

E quando i fini non si raggiungono? Quando i mezzi illeciti sono sproporzionati ai pur giustificati fini?

Erano pensieri troppo difficili per lui, uomo della Pampa: “Io - pensava più tardi,  mentre si rigirava nel letto – sono fatto così, sono un uomo d’azione e di comando, ed alla fin fine ho pur ricevuto lodi ed applausi, ed allora cosa sono qualche decine di morti dinanzi alle migliaia, ai milioni di vivi, che ora si godono la libertà?”.

Si fermò: “ma vivi come? Veramente liberi o non piuttosto sudditi? Felici o non piuttosto indifferenti? Era questa l’Italia che avevano sognato i fratelli Ramorino?”.
Anche una buona idea può illudere, uccidere e fallire.

Garibaldi non sapeva che un secolo dopo, la grande idea comunista del suo amico Marx avrebbe grandemente illuso, grandemente ucciso e sarebbe fallito il tentativo di realizzarla.  Ma una buona idea non muore.

Ma lui che veniva da Caprera cioè dal simbolo di un fallimento, in quel momento capì l’amarezza della signora Ramorino ed il rifiuto dell’orgoglio che egli le aveva offerto. Del resto si ricordò che dieci anni prima aveva scritto ad Adelaide Cairoli (madre di 3 fratelli morti garibaldini): “io ho la coscienza di non aver fatto male, nonostante non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della disprezzevole genia che disgraziatamente regge l’Italia e che semina l’odio e lo squallore dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano sognato dai buoni di tutte le generazioni, e miracolosamente iniziato.” [2] 

Ma “assassino” no! “Io ho sempre desiderato il bene di tutti, anche di Anita, anche di Anita... ma l’ho fatta soffrire, povera donna! E’ vero me la trascinavo in battaglia anche incinta, ma l’ha uccisa la guerra, non io, non io!”.

Ed allora capì che assassino non è il soldato che pianta nella pancia del fratello la lunga baionetta innestata sul fucile, assassino è il comandante che dà l’ordine.
Solo, nel suo letto cuneese, Giuseppe Garibaldi pianse. E non sapeva della triste sorte delle guerre moderne combattute non per necessità ma per l’affermazione di un principio (come le Crociate): dall’olocausto della Divisione Cuneense in Russia, al Vietnam, a Sarajevo, all’Irak e poi e poi…



Tetto de’ Chivalieri, agosto 2010




[1] In verità i due fratelli Ramorino non sono morti insieme e così come l’ho descritto io. Come ho appreso dal prof. Giovanni Cerutti (emulo di famosi cronisti della Cuneo del passato), Giuseppe Ramorino, arruolatosi volontario nel 1859 fra i Cacciatori delle Alpi, partecipò alla spedizione dei Mille, cadendo in combattimento effettivamente sul Volturno, il 2 ottobre 1860. Il fratello Paolo fu amico di Garibaldi e difese la Repubblica romana con Luciano Manara e Goffredo Mameli morendo a Villa Corsini il 3 giugno 1849. Ma la verità storica la raccontano gli storici: gli artisti inventano.

[2]  Lettera di Giuseppe Garibaldi ad Adelaide Cairoli da Caprera il 7 settembre 1868 riportato su LA REPUBBLICA.
 

                                  



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