ANTONIO SARTORIS
CHIARINA
Racconto di
fantasia, ma non troppo
A porta aperta
Quaderni di Casa Delfino n.8
2018
Edizioni Fondazione Casa Delfino onlus
C.so
Nizza 2, 12100 Cuneo (Italia)
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E-mail:
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Impaginazione:
Paola Bosa
Stampato
in proprio - I^ edizione maggio 2018
Suonate sempre con anima; suonate non solo
con le dita, ma anche con la testa e col cuore. Nulla di più grande si può
compiere senza entusiasmo; non si è mai finito di imparare; la migliore cura
contro la vanità e la presunzione è lo studio della storia della musica"
Robert Schumann
Il castello di Passerano-Marmorito (un
paesino piemontese in provincia di Asti) si eleva imponente e un po’ tetro
sull'abitato di poche centinaia di anime. La sua attuale costruzione risale al
Trecento, fu ampliata nei tre secoli successivi, ma la sua origine si attesta
all'Alto Medioevo.
Julie Schumann, terza figlia di Robert e
Clara, era giunta in questo castello avendo sposato a Lichtental, presso
Baden-Baden, il 22 settembre 1868, il conte Vittorio Amedeo Radicati di
Marmorito.
Quel giorno guardava il giardino che era
triste del grigio dell’autunno. Si accorse che con il pensiero stava andando
lontano ed allora girò lo sguardo all’interno della stanza calda del fuoco nel
caminetto e dei velluti alle tende e alle poltrone. Troneggiava il grande
pianoforte a coda dove aveva suonato sua madre, Clara Schumann, che glielo regalò quando era andata a trovarla.
Quel pianoforte era già in casa di suo
nonno il prof. Wieck quando Clara studiava e poi lo portò con sé nelle case di
Lipsia e di Dresda, dove era andata ad abitare con il suo Robert. Era un pianoforte
che sapeva tutto dei coniugi Schumann.
Julie posò le mani su quel pianoforte,
amico di sua madre, e ricordò quanto Lei le aveva raccontato:
“Era un tiepido pomeriggio d’estate,
un ragazzone alto e massiccio, dagli
occhi incantati sotto un bel ciuffo di capelli castani camminava con il suo
lungo passo e parlava, parlava, lo sguardo fisso al cielo. Lui si chiamava
Robert Schumann e chiamava me, poco più di una ragazzina, Chiarina. Ero
diventata sua amica. Gli saltellavo dietro ed ogni tanto gli afferravo una
manica perché non incespicasse nelle pietre del sentiero. Malgrado le mie
precauzioni, a volte, faceva un capitombolo: ridevamo insieme e lui mi parlava
della bellezza come forza morale; dell’arte come consolazione; dell’artista che
opera nella certezza di avere con sé, da presso o da lungi, almeno un’anima
bisognosa e desiderosa del suo messaggio.
Era l’allievo prediletto di mio padre, il
severo prof. Friedrick Wieck, grande pianista ed il più noto insegnante di
Lipsia, e a lui queste passeggiate non piacevano per niente. Finì che, per
tenermi lontana da lui, mi mandò a fare un riuscito e lungo giro di concerti nelle
grandi capitali d’Europa, avevo solo sedici anni.
Ma
tornai, e la mamma mi disse 'È ora che entri nella nostra società e magari
trovi un buon partito'.
Al braccio di mio padre andai al gran
ballo nel palazzo del principe Orloski e fu lì che vidi un giovanotto venirmi
incontro e porgendomi una rosa disse 'Sono Robert Schumann, permettete questo
ballo?'. Non mi riconobbe: ero diventata una donna. Ballai con lui l’Invito alla danza, superbamente scritto
per pianoforte da Carl Maria von Weber, ma che ora suonava l’orchestra. Il
valzer è un girotondo di voluttà intima ed estenuata, che io ballai, sfidando
le occhiatacce di mia madre, allacciata a lui,
petto contro petto, alito contro alito. Eravamo di nuovo insieme.
Era bello ed elegante il mio Robert -
ricordava mia madre con un sospiro - ma per i miei non era un buon partito. Era
sempre in bolletta: mio padre mi raccontava che era giunto a mangiare solo
patate, aveva venduto per vivere anche i suoi libri, ed era lui che doveva
fargli qualche piccolo prestito. Il concertista che voleva diventare e per cui
studiava e studiava, non poteva più diventarlo, perché a forza di esercizi di
difficoltà trascendentale si era rovinato un dito.
Nonostante tante predizioni di
sventura io volevo Lui. Fui costretta andare in Tribunale per liberarmi del
veto di mio padre perché non avevo ancora la maggiore età di legge, ma la
spuntai io e ci sposammo.
Abbiamo abitato prima a Lipsia all’ombra
del grande Bach, poi a Dresda, per ritornare poi a Lipsia, anche per la nostalgia
della famosa orchestra del Gewandhaus diretta dal suo amico Felix Mendelssohn.
Avevamo una casetta piccola, stile Biedermeier, ma è lì che ebbi i miei otto
figli (tu sei nata terza nel 1845).
Purtroppo non ho potuto seguirvi molto
perché dovevo girare mezza Europa per suonare come concertista e, senza falsa
modestia, direi con notevole successo, lasciandovi affidati a Vostro padre che
avendo rinunciato a fare il concertista per l’infortunio alla mano faceva il
compositore ed il giornalista.
I suoi risultati economici non erano molti, ma
lui si prendeva le sue soddisfazioni ed io ero contenta. Ha fondato il primo
giornale di cose musicali il Neue Zeitschrift für
Musik ed in epigrafe vi ha scritto le seguenti parole tratte dall’Enrico VIII
di Shakespeare: 'Coloro che venissero qui per assistere ad uno spettacolo gaio
e licenzioso, per intendere uno strepito di scudi cozzanti o per vedere un
buffone in veste screziata, listata di giallo, rimarrebbero assai delusi nella
loro attesa'. Così penso venga fatta l’arte. Con questo giornale e con queste
idee si incominciava a parlare di lui in tutta la Germania. Un bel giorno è
venuto alla nostra porta un bel giovane. 'Mi chiamo Johann Brahms' si presentò
'e vengo da Amburgo'. Robert lesse le sue composizioni e mi disse che aveva
ragione l’amico che glielo aveva raccomandato scrivendogli che 'alla culla di
lui hanno vegliato Grazie ed Eroi!'."
Julie si ricordò che a questo punto del
racconto sua madre fece un lungo sospiro prima di proseguire.
"Johann
era un ragazzone alto e con lunghi capelli biondi che incorniciavano un volto
dagli occhi dolci, ma volitivi. Quando si mise al pianoforte cominciò a
scoprirci regioni meravigliose: io venivo attirata in un cerchio sempre più
magico." Aggiungete a questo, un modo di suonare che faceva del pianoforte
un’orchestra dalle voci ora lamentose ora esaltanti di gioia.
Sua
madre le raccontò che talora Robert era scandalizzato, e lo scriveva, nell’immaginare
che taluno potesse concepire l’arte come un divertimento, come un appagamento
dei sensi o come un mezzo per sollecitarli, fino all’esaltazione. Secondo lui,
nulla poteva offendere tanto quanto la speculazione dell’ingegno. Era quello
che rimproverava a Rossini (che aveva conosciuto con la voce fatata della Adelina
Pasta alla Scala) e in parte anche a Mozart, per non parlare della musica
concertistica che si prestava al virtuosismo come quello dei vari Thalerg,
Hummel e Kalkbrenner. Egli li chiamava 'i Filistei'.
"È con questo spirito critico verso
i Filistei che tuo padre organizzò idealmente una “lega dei compagni di Davide”
in onore dei quali scrisse le Davidsbündlertänze
(Danze dei compagni di Davide)."
Fare lo scrittore ed il compositore non è
che rendesse molto, ma c’era “Clara Schumann”, ormai affermata concertista.
Quando fu chiamata a S.Pietroburgo, andarono insieme e lei suonò nel grande
salone dell’Ermitage anche il Concerto
per pianoforte e orchestra op. 54, composizione mirabile che Clara eseguì
con una straordinaria perizia pianistica, unita alla comprensione profonda del
mondo poetico di Robert Schumann. Questa composizione è intimamente legata a Clara,
perché i tutti e tre i movimenti del concerto sono costruiti con un tema che
deriva direttamente dalle lettere musicabili del suo nome: C, ossia do nella
grafia tedesca, H, ossia si, e A, ovvero la, ripetuto due volte. Ecco dunque il
tema di Clara: do-si-la-la!
“Non so se l’hanno capito – disse lui - ma
questi pubblici, sopportano molte cose: ti ricordi quando ti voltavo i fogli
durante l’esecuzione di un notturno di Chopin: metà del pubblico s’era già
sprofondata nel suo intimo. Cioè dormiva..."
Quella sera nel suo camerino giunse
insieme alle grandi corbeille dei principi e dei duchi, una sola umile rosa
rossa come quelle che gli esultanti spettatori russi offrono di persona ai
grandi interpreti, che li raccolgono, onorati, al bordo del palco. La rosa
rossa era accompagnata da un bigliettino che diceva: "Ti amo non solo
perché sei una grande artista, ma soprattutto perché sei buona".
Non sempre il suo tempo capì Schumann, ma
Schumann capì il suo tempo. Nelle sue sinfonie, nei suoi concerti per
pianoforte, o violino, o violoncello c’era l’anima di un visionario ed insieme
di un romantico. “Mi conosco bene - diceva tra sé - in me c’è Eusebio, la
passione, e Florestano, la ragione". E in effetti i suoi brani pianistici
soprattutto, ma anche sinfonici, sono un alternarsi di accordi energici, di
arpeggi tumultuosi e di momenti distesi, melodici quasi sognanti.
La musica più schumaniana, quella che con
estrema purezza esprime l’intimità, il palpito, lo slancio, le esitazioni del
romantico, Robert l’ha scritta per pianoforte, e per pianoforte e voce solista
(i celeberrimi Lieder). Anch’egli, come Schubert, predilige il pianoforte come
strumento espressivo completo, ed al tempo stesso, intimo e personalissimo.
Nelle sue 'compilation' - si direbbe oggi
- vi sono poi le espressioni tipicamente romantiche dell’indefinito, del
misterioso, il senso dell’infinito. Non c’è cosa od essere che per lui non
abbia un lato di occulto. Persino nei giuochi dei fanciulli, nelle fantasie e
nelle azioni dei bimbi, Schumann avverte la presenza di un’ombra, l’immanere di
una interrogazione, il velo di un enigma. Le Kinderszenen (Scene infantili) op.15 sono brevi, in alcuni casi
brevissime, composizioni pianistiche scritte da Robert Schumann nel febbraio del
1838. Lui stesso le definì "reminiscenze per adulti da parte di un
adulto"; non più musica per i bimbi dunque, bensì sui bimbi.
"Ed
aveva noi ad esempio - pensò Julie - ed era un buon padre. Mi ricordo quando ci
ha portato in gita sulle rive erbose del grande fiume, il Reno, e sono certa
che da quella grandiosità della natura sia nato il bellissimo inizio della sua III Sinfonia in mi bemolle maggiore op.
97, detta appunto 'Renana'.
Mamma
mi diceva che le anime, intorno a lui, ruotavano emettendo come un brusio, si
cercavano in colloqui non bene articolati, e questo loro destino, questo loro
interrogarsi, senza risposta, si ripeteva e ritornava, rinascendo senza pose da
una mortale stanchezza. Ma insieme con questi elementi che potremmo chiamare
decadenti e quasi femminei, scoppiava ad un tratto una baldanza marziale, una
pompa compiaciuta, una verve un po’ grossolana, ma energica e sanguigna, uno
scatto di humour che partiva bonario ed arrivava, non di rado, crudelmente: una
maestosità da Corale, un’ebrietà irrefrenabile e dolorosa. Mamma ricordava come
con tanto ardore siano stati scritti, tutti per pianoforte (forse proprio su
questo pianoforte), la sua opera Papillons
op.2, e poi i Phantasiestücke (Pezzi fantastici) op.12, gli Studi
Sinfonici op.13, Kreisleriana op.16,
ma anche con passione gridata, come nella Fantasia
op.17. Presentandogliela, papà le scrisse 'Il primo movimento è ciò che ho
scritto di più appassionato: è un grande grido disperato verso di te'. E poi
tanti, tanti Lieder: erano le canzoni di allora. Me ne ricordo uno su versi di
Heine che dicevano:
Ogni notte, in sogno, io ti vedo
E tu amorevole, mi saluti,
mentre, in lacrime, mi inchino
ai tuoi dolci piedi.
Mi guardi con grande tristezza
scuotendo la tua testa bionda;
dai tuoi occhi scorrono rapide
le perle del pianto.
Mi sussurri una parola dolce
mentre mi doni rami di cipresso.
Al mio risveglio, i rami sono svaniti,
la parola dimenticata.
Papà era fatto
così: aveva nel cuore solo e sempre la sua Clara. In un gruppo fantasmagorico
di ricordi e fantasie che chiamò Carnaval
(la sua opera 9) ricordò la ragazzina Wieck che gli correva dietro in un
piccolo brano che chiamò CHIARINA; ricordò anche il suo amico Chopin, facendo
una perfetta imitazione del suo stile, e il grande Paganini in un brano tutto
saltellato, dove sembra di vedere l’archetto del violinista che scintilla sulle
corde. Seguono ancora un brano misteriosissimo e pressoché immobile che chiamò
Sfingi, ed un altro di nome Estrella: quando però gli chiedevamo chi si celasse
dietro la maschera di Estrella egli taceva, e ci sorrideva dolcemente...
E
non dimenticò nei Davidsbündler op.6 i suoi fantastici amici di gioventù,
quelli che marciavano contro i filistei e fra essi c’era lui, Florestano, nome
che simbolizza la sua natura ardita ed appassionata ed insieme, Eusebio che è
la voce della sua natura dolcemente sognatrice e indulgente. Il suo ideale era
il personaggio di Maestro Raro, che cercava con grande fatica di mettere d’
accordo Eusebio e Florestano."
Julie ormai era persa nei ricordi, quelli che nelle
buone famiglie d’antan si trasmettono
dalla persone più anziane a quelle più giovani che le trasmettono a loro volta
(forse).
Si
ricordò che una volta a tavola sotto il lume a petrolio Papà raccontò che sua
madre (suo padre era già morto da qualche anno) voleva ad ogni costo che egli
facesse l’avvocato e lui allora le scrisse una lettera. "Volle leggerla a
noi suoi figli perché disse: 'siate liberi e sarete felici'. C’era tutto lui
con i suoi soprassalti di esaltazione e di rinuncia, di strazio e di gioia, con
le sue ansie di supremazia ideale ed i suoi ripiegamenti pudichi, la sua
voracità sentimentale e la sua delicatezza di spirito, e mi ricordo che alla
fine mamma lo ha abbracciato: 'ti amo, Robert', e noi abbiamo battuto le mani."
Julie sorrise. "Mamma mi diceva che quelli furono i bei momenti
della loro vita. Ma non durarono; mamma mi raccontò che una volta mentre lei
stava suonando a quattro mani con Johannes Brahms, papà si mise ad urlare, 'Nel
manicomio, no! nel manicomio, no!' e quando nella notte furono loro due soli le
disse che nei suoi pensieri c’era una confusione spaventosa e proprio il
manicomio gli appariva come un luogo destinato ad accoglierlo. 'Lo so che è
fantasia, ma è come se avessi dentro un tarlo, che a poco a poco mi rode il
cervello'."
Julie si portò la mano alla gola, ma il ricordo più doloroso era lì, ben
presente. "Quella notte, già spaventosa per la pioggia e i tuoni, tutti
gridavano perché papà era uscito di corsa, senza cappotto e senza ombrello. Lo
riportarono a casa due pescatori che lo avevano salvato dal fiume in cui si era
buttato, per farla finita.
La mamma si gettò su di lui a dirgli: warum?
perché? Noi bambini a piangere, e lui con gli occhi sbarrati, velati,
singolarmente quieto quando lo portarono via in quel manicomio che tanto
temeva.
Non mi ricordo se mi portarono a
trovarlo: i grandi credono che i bambini certe cose non le debbano sapere, ed invece
i bambini sanno.
Era circa la metà di luglio: il dott. Richarz
telegrafò a mia madre di accorrere 'se volete vedere Vostro marito per l’ultima
volta'. Mia madre mi raccontò che arrivò ad Endenich, con Brahms, il 27, verso
le sei di sera. 'Quando lo vidi - mi disse - ebbi l’impressione di trovarmi in
presenza di un altro. Ma Roberto mi riconobbe, sorrise. Mi prese dolcemente
alla vita, mi sfiorò la bocca con le sue labbra gelide e del suo balbettio
confuso mi sembrò di capire solo 'Chiarina, warum?'
Furono i medici a volere che io ripartissi - mia madre quasi
si scusava - e Brahms mi portò via'.
Mi hanno detto che il giorno dopo papà fu
travolto da convulsioni terribili, spasimò urlando, cospargendo il viso di
lacrime. All’alba del 29 luglio 1856 una pace sovrumana lo avvolse: gli occhi
tranquilli cercarono il cielo e le fronde degli alberi, visibili dalla finestra
spalancata. Morì nella notte, solo! Aveva quarant'anni!"
ANTONIO
SARTORIS
NOTA:
Clara Wieck Schumann, dopo la morte del
marito, riprese la sua carriera di brillante pianista, interrotta per dedicarsi
interamente alla malattia di lui. Si adoperò a promuovere le composizioni del
marito, la cui fama postuma si deve in buona parte a lei. Divenne inoltre la
prima insegnante donna al Conservatorio di Francoforte, dove introdusse nuove
tecniche per suonare il pianoforte, alcune delle quali utilizzate ancora oggi.
Con Schumann ebbe in totale otto figli. Provò il dolore di seppellire quattro
di essi, fra cui Julie nel 1872, e accompagnarne uno al manicomio.
Morì a Francoforte nel l896 a 77 anni.
P.B.
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