GIGIA, OVVERO DELLA COMPASSIONE
Racconto di fantasia,
la
figlia sfrenata della libertà
Sono
una cavalla: mi chiamano Gigia forse da “grigia” che lo sono di mantello e di
criniera. Il posteggio mio e del mio padrone era l’angolo di p.zza Carlo
Alberto, a Torino. Lunghe attese di qualche coppia o di qualche famigliola,
perlopiù stranieri, da portare nei pochi luoghi monumentali della città:
Palazzo Reale, Palazzo Madama e la Mole che vista da sotto mi faceva anche un
po’ paura.
Nelle
attese, ruminando qualche carruba e battendo il ferro sulle indistruttibili
pietre di Luserna dell’acciottolato, è da lì che vedevo spesso passare, ad ora
fissa, un signore vestito di nero. Lo si notava perché aveva folti baffoni
sporgenti dal labbro superiore e l’occhio un po’ spiritato: lo qualificai
subito un professore.
Passava
ogni giorno, due volte, verso l'ora di pranzo e quella di cena. Passandomi
vicino mi diceva: "Ciao!" e finii per rispondergli, chinando la
testa. Lo seguii con la coda dell’occhio, così individuai, dove andava a
mangiare. Una piccola trattoria di via Bogino, “Da Giuseppe”, dove andava anche
il mio padrone.
Io,
ovviamente, stavo fuori, ma dalla finestrella a fianco della porta, dietro le
mezze tendine a quadretti bianchi e rossi, si vedeva dentro.
Il mio amico (ormai lo
consideravo tale) era là in un tavolino d’angolo, sempre solo con davanti un
bel bicchierone di birra.
Anche
il padrone della trattoria lo conoscevo bene: era un famoso cuoco in pensione.
Era stato l’ultimo cuoco di Casa Savoia quando Re Toju veniva ancora al
Castello di Racconigi: lì nacque l’erede Umberto che divenne il Re di Maggio ed
era un bel bambino biondo che io – puledra – portavo a spasso nel grande parco.
Lì Giuseppe aveva preparato il pranzo per l’ospite lo zar Nicola di Russia e la
sua corte. In tale occasione sfoderò la sua famosa ricetta del risotto al fondo
bruno, così buono, ma così buono, che la bellissima zarina Alessandra volle
portarsela a San Pietroburgo.
Il
Professore mangiava di buon appetito leccandosi letteralmente i baffoni che poi
si asciugava e pettinava con molta cura. Ho sentito io il Professore che
uscendo con un altro commensale diceva: “Vede, caro Carlo, non avevo idea della
superiorità degli italiani nell’arte della cucina fino a quando non ho
conosciuto questa trattoria. Non per niente ci troviamo vicini ai più famosi
allevamenti di bestiame: quelli della provincia di Cuneo! Oggi ad esempio ho
mangiato i più delicati ossobuchi, lo sa Iddio, come si dice in tedesco, quelli
della carne attorno all’osso, in cui si trova lo squisito midollo! Accompagnati
da broccoli preparati in maniera incredibile e per primo, tenerissimi
tenerissimi maccaroni. E per ogni pasto (con 10 centesimi di mancia per i
gentilissimi camerieri) pago un franco e 25. Meno di così?”
Dopo
quei pasti, il professore usciva all’aperto, tirava su un bel respiro della
fresca e ossigenata aria di Torino, un cenno a me e tornava nella sua camera
vicino al cielo.
Abitava in via Carlo Alberto n.6
dove al quarto piano i sigg.ri Davide e Candida Fino gli avevano affittato una
camera ammobiliata per 30 lire al mese, con servizio, compresa la pulizia degli
stivali.
Che
cosa facesse lì non l’ho mai saputo, ma sono sicura che non dovesse essere un
lavoro facile, lo vedevo stanco.
La
sera sedeva in uno splendido salone (si chiamava Baratti) per un piccolo
concerto, più che decoroso (pianoforte, 4 archi e 2 fiati), che a me arrivava
attutito. Gli portavano il suo giornale, il “Journal des Debats” e si gustava
un eccellente gelato: con la mancia, pagava 40 centesimi.
Adesso
vi racconto una cosa che non ho mai confidato a nessuno. Dovete sapere che la
mia stalla era proprio nel cortile dove si affacciava il retro della “Trattoria
da Giuseppe”. Un classico cortile delle case del vecchio centro di Torino con i
balconi a ringhiera ai vari piani, per la comunicazione tra le stanze. Si
affacciano sul cortile, per poter stendere il bucato celandolo al passeggio, e
per poter comunicare alla voce con le persone di sotto. Nel cortile si apriva
la rimessa dei cavalli, residuo della vecchia locanda con stallatico detta “Del
sollazzo gastrico”.
Ebbene una sera, saranno state le
nove, io ero già stata portata a stalla dal mio padrone, il professore invece
di uscire dalla solita porta della trattoria, quella che dava in via Bogino,
uscì dalla parte del cortile e venne a trovarmi.
Io lo riconobbi subito e gli feci
il solito cenno con il capo che lui considerò un invito: prese una vecchia
sedia impagliata e si sedette vicino a me. “Lo sai che non me ne va bene una
" incominciò a parlare con voce bassa, proprio quella con cui si fanno le
confidenze più intime.
Aveva ragione a fidarsi di me:
una cavalla, anche se pettegola, non potrà mai andare a spifferare le
confidenze ricevute. È vero che mia madre mi aveva raccontato di una “cavallina
storna” che con il suo nitrito aveva rivelato il nome dell’assassino del suo
padrone, ma ancora oggi, non sono sicura di quanto quel fatto fosse verità o
fantasia di poeta.
Comunque il professore si fidava
di me e quella sera si sfogò.
“Oggi ho ricevuto una lettera dalla mia
ragazza. Capirai subito che è un po’ strana: si chiama Lou, sì proprio così, ma
non è un uomo. Non ti stupire: avevamo realizzato una piccola comunità Lei, io
ed un amico, Paul Rée. Siamo stati insieme ed era ménage a trois. Non quello fisico, di sesso: non ricordo neanche
più se mi ha dato un bacio, ma le volevo bene. E allora prima di arrivare qui a
Torino le ho fatto dire da Paul che volevo sposarla.
Oggi mi ha scritto: 'Ma cosa hai
capito? Te l’avevo detto che il matrimonio è lontano dalla mia mente quanto il
sentimentalismo'.
“Lo
sapevo, lo sapevo – il professore alzò la voce - nessuno ha mai fatto alcunché
esclusivamente per gli altri. Tutti gli atti sono compiuti in favore di sé stessi, ogni servizio è prestato per servire sé stessi, ogni amore è rivolto
alla propria persona. L’oblatività non appartiene alla natura umana. Hai
capito: mi ha usato! Fin quando le sembrava di poter avere qualcosa da me
(forse anche partecipare alla fama che intravedeva in me) andava tutto bene,
quando si è trattato di dare lei qualcosa a me, se n’è andata. Ma anch’io sono 'Umano troppo Umano', io di questa donna
ho bisogno – proseguì - è di un’incredibile bellezza. Vedessi i suoi luminosi
occhi azzurri, le labbra piene e sensuali, i capelli biondo argento spazzolati
in su come una corona. Ha fatto da modella a Klimt. E poi è forte, sa vivere il
suo essere in questo nostro tempo tempestoso. Io invece sono venuto troppo
presto, non è ancora il mio tempo e nel libro, che sto progettando, tratterò
proprio questo tema: un profeta, Zarathustra, maestro di saggezza, decide di
illuminare l’umanità. Ma nessuno capisce le sue parole e lui ritorna al suo
silenzio”.
Il
Professore tacque, poi si alzò in piedi e disse: “In verità, in verità vi dico,
il mio tempo verrà!”.
A questo punto, nella penombra, vidi il Professore
con il fazzoletto in mano e dalla sua gran soffiata capii che stava piangendo.
Una
sera il padrone mi ha tirata fuori dalla stalla e mi ha detto: “Dobbiamo andare
a prendere il professore, sai quello sempre vestito di nero (non sapeva che io
lo conoscevo meglio di lui). Dobbiamo portarlo a teatro: questa sera al Regio
si dà la Carmen con quella famosa soprano spagnola”.
E dopo quella sera, ogni sera
abbiamo portato il Professore a vedere la Carmen, per cinque rappresentazioni,
tante quante furono in cartellone.
Anche il mio padrone si stupiva
di questa frequenza insolita sempre alla stessa opera. Ho sentito che ne
parlava con Giuseppe e lui gli diceva che il Professore, già fanatico della
musica del tedesco Wagner, aveva avuto un improvviso innamoramento per la
latinità di Carmen: lo accendeva il ritmo della musica. Ma io pensavo:
“cherchez la femme”.
Ed infatti una notte sentii bisbigliare in cortile
e nella penombra vidi il Professore tirare per mano una profumata signora –
ancheggiante alla spagnola - ed infilare la scala B, dove la signora Pautaso
affittava camere anche ad ore.
Hai
capito il Professore? In mancanza di Lou, l’aveva acceso Carmen.
Mi
ricordo che della Carmen avevo già sentito parlare quando un giorno, mi sono
visto salire in carrozzella il Professore ed un amico. “È un bel dì di maggio, andiamo
a fare una passeggiata”. Il Professore quel giorno era loquace: “Vedi amico mio
come è bello stare a Torino. Persino come paesaggio mi è più simpatica di
quello stupido pezzo di Riviera calcareo e brullo, al punto che non smetto di
arrabbiarmi per essermene sbarazzato così tardi. Qui i giorni si susseguono con
la stessa straordinaria perfezione e solarità. La splendida vegetazione arborea
di un verde sfavillante, il cielo e il grande fiume di un tenero azzurro.
Frutti, uva della più mora dolcezza - e meno cara che a Venezia! Trovo che qui
valga la pena di vivere sotto tutti gli aspetti. E poi Torino anche in fatto di
musica è la città più affidabile che io conosca. Tu, Richard, che sei un grande
musicista, dovevi esserci al concerto che ho ascoltato ieri sera al Teatro
Vittorio Emanuele in via Rossini 15. Ci sono 2.500 posti, tutti esauriti e un'acustica
magnifica. Fu eseguita grande musica: prima l’ouverture dell’Egmont, poi la Marcia
ungherese di Schubert (dai Moments musicaux) magnificamente adattata e
orchestrata da tuo suocero Franz Liszt. Subito dopo un pezzo solo per tutti gli
strumenti ad arco: dopo la quarta battuta ero in lacrime. Un’ispirazione
assolutamente celestiale e profonda, di chi? Di un musicista morto a Torino nel
1870, Rossaro (Carlo Rossaro, Crescentino
1827 – Torino 1878. Nda). Ti giuro, musica di primissimo ordine, di una bellezza
della forma e del cuore, che cambia tutte le mie idee sugli italiani. Domani
sera 'Carmen' è la quinta volta che l’ascolto: non è forse musica sublime?”.
L’amico
rispose: “Tu Friedrich, sei sempre esagerato: quando venivi a trovarmi a
Tribschen eri infatuato della mia musica. Mi salutavi come il tuo mistagogo,
sacerdote che ti iniziava nelle arcane dottrine dell’arte e della vita poi, improvvisamente,
non ti sei più fatto vivo. Torna a Bayreuth: vieni a vedere il nuovo teatro che
vi ho costruito e poi anche Cosima ti vuol rivedere”.
Il
Professore stette un po’ in silenzio poi alzando la voce e rosso in viso come
non l’avevo mai visto, quasi gridò: "Ho letto il tuo pamphlet, contro gli ebrei: 'Gli ebrei e la musica'. Lo so bene che è tuo – anche se pubblicato sotto
pseudomino - e lascia che te lo dica, ne sono indignato. Come puoi vuotare
addosso a musicisti come il sublime Mendelssohn tanto veleno? Mi hanno detto
che quando dirigi la sua musica ti metti i guanti. Vergogna: io so quanto male
faranno le Tue parole. No, non verrò più a Bayreuth e poi, lascia che te lo dica,
non ne posso più di tutto quel teutonico che metti nella tua musica:
Deutschland, sempre Deutschland!".
Un silenzio di gelo calò nella conversazione ed io capii che
era l’ora di tornare a casa. Quando si salutarono non si strinsero neppure la
mano.
Io
sono una cavalla qualunque, ma conosco anch’io i bei momenti della vita.
Mio nonno morì a Waterloo il 18
Giugno 1815 con l’ultima carica della Guardia di Napoleone e mia nonna – parlando con pardon - “trottava” a
Parigi.
Io sono nata in una stalla
borghese.
Mio padre portava a spasso il
comm. Giovanni Agnelli ed i suoi nipoti vestiti alla marinara nei viali del
Parco del Valentino. Io, ancora puledra, fui portata a Vinovo nell’ippodromo,
ma non ero tagliata per le corse e mi hanno fatto figliare con vari stalloni.
Qualche storia fu anche bella, e soprattutto, erano belli i miei puledri. Li
accarezzavo con lunghe linguate: chissà dove saranno finiti?
Poi mi hanno venduta a questo
padrone, che ancora mi usa, ma sono vecchia e la stanchezza che sento sempre di
più è certo l’annuncio della morte.
Un
giorno ho detto basta: il padrone aveva fatto salire a bordo cinque persone.
Cinque persone capite, che con lui a cassetta saranno stati cinquecento chili.
Ho provato a partire, ma non ce la facevo proprio, ed allora sapete cosa ha
fatto il padrone? Ha preso la frusta e me l’ha data sul groppone. Io tiravo,
tiravo, ma la carrozza non si muoveva ed allora giù botte.
In
quel momento passava il signore in nero, il Professore. Incredibile, ma bello,
si gettò piangendo al mio collo gridando “C’est moi qui l’ai tuée! Ah! Carmen!
Ma Carmen adorée!”. Tutti si fermarono e il padrone lasciò cadere la frusta:
“Ma chi è questo pazzo? Chiamate le guardie”. “È quel professore tedesco –
disse uno - che da qualche mese è venuto ad abitare al n.6 di via Carlo
Alberto: si chiama Federico Nietzsche”.
Vennero le guardie e lo portarono
via.
L’altro
giorno ho sentito qualcuno che diceva: “Il prof. Nietzsche è morto a Weimar, in
Germania, il 25 agosto 1900 all’età di 54 anni. Dopo il fatto del cavallo di
Torino, è stato sempre muto”.
Allora,
mi dissi, quelle sono state le sue ultime parole, e solo io sapevo perché.
Ci credete? Mi ha fatto pena.
ANTONIO SARTORIS
Cuneo, aprile 2015